MOLFETTA - Un filosofo francese, Pascal Engel, ammetteva di essere molto stupito, quando seguiva le lezioni di Michel Foucault al Collège de France negli anni Settanta, di sentirlo spiegare che la nozione di verità era soltanto lo strumento del potere e che, essendo ogni potere malvagio, la verità poteva essere soltanto l’espressione di una volontà maligna, e di ritrovarlo poi nelle manifestazioni, dietro agli striscioni, a richiedere “Verità e giustizia”.
E’ un paradosso da cui ho anch’io qualche difficoltà ad uscire. Ma, a mio parere, la verità è definita dall’orizzonte storico in cui siamo immersi, che segna il reticolo delle relazioni, rappresenta l’ambito di senso di una comunità. Quella stessa comunità lacerata dalla morte, 4 anni fa, di 5 lavoratori. Quella tragedia ha segnato il tessuto della comunità, violando le regole fondamentali che ne strutturano i rapporti essenziali.
Richiedere verità significa allora riconoscere che le regole stesse su cui si fonda la nostra convivenza in una comunità sono state demolite, e che tale ferita si prolunga in una sentenza che continua ad oltraggiare i presupposti essenziali dell’essere-in-comune. Perché il lavoro di ciascuno è il modo per dire se stessi, per costruire qualcosa che ci lega agli altri, fino a immergerci in uno spirito che è il nocciolo imprescindibile di una comunità. Al di fuori di quei presupposti, quando il lavoro è degradato e trascina con sé la vita umana, sono quegli stessi rapporti a lacerarsi, ad immetterci su un filo precario in cui la comunità perde sé stessa.
E’ un paradosso da cui ho anch’io qualche difficoltà ad uscire. Ma, a mio parere, la verità è definita dall’orizzonte storico in cui siamo immersi, che segna il reticolo delle relazioni, rappresenta l’ambito di senso di una comunità. Quella stessa comunità lacerata dalla morte, 4 anni fa, di 5 lavoratori. Quella tragedia ha segnato il tessuto della comunità, violando le regole fondamentali che ne strutturano i rapporti essenziali.
Richiedere verità significa allora riconoscere che le regole stesse su cui si fonda la nostra convivenza in una comunità sono state demolite, e che tale ferita si prolunga in una sentenza che continua ad oltraggiare i presupposti essenziali dell’essere-in-comune. Perché il lavoro di ciascuno è il modo per dire se stessi, per costruire qualcosa che ci lega agli altri, fino a immergerci in uno spirito che è il nocciolo imprescindibile di una comunità. Al di fuori di quei presupposti, quando il lavoro è degradato e trascina con sé la vita umana, sono quegli stessi rapporti a lacerarsi, ad immetterci su un filo precario in cui la comunità perde sé stessa.
E allora questa comunità ieri mattina si è ritrovata in quei 5 lavoratori, ha affermato il valore del lavoro e della vita nella partecipazione numerosa di studenti interessati e di associazioni, di sindacati e partiti. Di quei cittadini che vedono nella verità e nella giustizia la condizione imprescindibile per continuare a condividere lo spazio vitale in cui siamo tutti in gioco. La Molfetta che ha partecipato al corteo del 3 Marzo è la Molfetta che crede che la morte di 5 lavoratori sul posto di lavoro sia la messa in discussione più pericolosa della nostra stessa convivenza, e della nostra possibilità di dirci comunità.
Questo è il senso profondo di una manifestazione e il prezzo è troppo alto per strumentalizzazioni e banali provocazioni, che rischiano solo di farci tornare al di qua della posta in gioco.
Se è vero, come scriveva Holderlin, che “là dove c’è il pericolo, cresce anche ciò che ci salva”, la morte di 5 lavoratori molfettesi è oggi parte integrante dell’identità di questa città, che cerca adesso di ricominciare, per ottenere verità e giustizia. Ora e sempre.
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Giacomo Pisani
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